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Uno specchio per l'io tra sogno e realtà

Hirano Keiichirō, Racconto di una luna (一月物語り), Trad. (davvero bella) di Laura Testaverde, Lindau: 2021.


"Lo splendore di una mezza luna ancora incompleta filtrava attraverso nuvole e foschia, simile a una manciata di frammenti di ghiaccio semidisciolti".

Siamo qui a circa metà della nostra storia, ambientata nel 1897, che vede come protagonista un giovane e bellissimo studente e poeta, Ihara Masaki, che combatte la sua periodica "nevrastenia" con viaggi improvvisi e senza meta. Questo racconto narra di uno di questi viaggi, quando Masaki, indeciso se andare a est o a ovest, solleticato dalla bellezza di una donna incrociata nel cammino, si dirige a ovest, verso Yoshino (Nara), nella speranza di rincontrarla.

Siamo in epoca Meiji, negli anni del Romanticismo giapponese, ovvero il periodo in cui questa corrente estetica e filosofica venne introdotta in Giappone ad opera di vari intellettuali e scrittori, tra i quali Mori Ōgai. Tra le varie correnti culturali europee che in quell'epoca si riversavano per la prima volta nella cultura giapponese, quella romantica fu forse quella con cui si raggiunse prima e meglio una sintonia. Essa pervase e influenzò molta della poesia e della letteratura del tempo, rielaborata con elementi della tradizione e del folklore locale che, come era avvenuto anche in Europa in epoca romantica, venivano riscoperti alla luce delle nuove idee idealiste e della nuova estetica. Il nostro protagonista sembra infatti essere una rappresentazione letteraria di un intellettuale di fine Ottocento, Kitamura Tōkoku.

E la narrazione inizia infatti come una narrazione tipica del XIX secolo, con un giovane che intraprende un viaggio e una realistica descrizione della società del tempo, con dettagli davvero particolareggiati e precisi. L'atmosfera cambia e ci trasporta in una dimensione metafisica, quando Masaki incontra un vecchio che viaggia nella stessa direzione e nella stessa carrozza del treno. Con la sua apparizione, si verifica quella che sempre più, col passare delle ore e dei giorni, Masaki identifica come una stortura dell'asse del tempo. Luoghi e ore sembrano fagocitati senza lasciare traccia e non sa bene come o dove siano andati a finire. Il giovane soffre la presenza invadente del vecchio chiacchierone, salvo poi temerne il silenzio quando, incamminatisi per un pellegrinaggio verso il santuario Hongū, a Kumano, il vecchio cambia drasticamente atteggiamento, diventando freddo e, appunto, non parlando quasi più. Ben presto i loro sentieri si divideranno, perché un giorno, al risveglio, Masaki scopre che il vecchio ha lasciato presto la locanda, proseguendo da solo il proprio viaggio.

Alla sua scomparsa corrisponde però l'apparizione di una farfalla bianca e luminosa, che attira Masaki per sentieri nel bosco che deviano dal suo percorso. Masaki si perde, viene morso da un serpente alla gamba, sviene e da quel momento la sua vita e la nostra storia prenderanno anch'esse una nuova direzione.

Da questo punto realtà, sogno e illusione si mescolano di continuo nella mente e nella vita di Masaki, che non riesce più a comprendere dove finisca la realtà, o quale sia la realtà, e dove inizino il delirio, l'illusione e il sogno. Nei giorni di malattia, in cui viene accudito da un monaco eremita, En'yu, che lo ha trovato, salvato e portato nella sua piccola dimora sperduta sul monte Ōsendake, il giovane poeta viene tormentato da un sogno che gli appare ogni notte e che con il tempo si fa via via più reale. Egli diventa presto ossessionato dalla promessa del sogno: una meravigliosa fanciulla quasi del tutto spogliata, che si lava dandogli le spalle e abbagliandolo con un candore quasi irreale, che proviene dalla luna. L'ossessione è tale che Masaki non vuole abbandonare l'eremo, in quanto convinto che l'origine di questo suo sogno e del senso di confusione che lo attanaglia risieda in quel luogo, in quella montagna in cui il tempo sembra scorrere lungo un binario molto diverso, molto più veloce rispetto a quello della "realtà" come la conosceva prima di approdare in questi luoghi.

Il lettore crederà a lungo di non essere caduto nello stesso smarrimento di Masaki e di non aver problemi a distinguere quale sia la realtà e quali invece i deliri ossessionati e i sogni del protagonista. Ma la parte finale, una volta che disceso dal monte, il giovane uomo cade ammalato e viene accudito dalla locandiera dell'albergo presso cui ha preso stanza, ci rivela particolari che getteranno anche noi nello stesso vortice di confusione. Dal racconto di Yasuko, l'elegante locandiera, Masaki apprende che la donna che dimorava in una capanna dietro il padiglione dell'eremo, dove il monaco lo aveva pregato di non andare, e che lui aveva intravisto per poco, la sera prima di abbandonare il tempio, riconoscendo in lei la donna bellissima che gli appariva in sogno, era in realtà la figlia di una famiglia del posto, ripudiata da madre e nonni, perché dal suo concepimento la famiglia era stata colpita da un susseguirsi di disgrazie. La madre della fanciulla si chiamava Otaki e anche lei, come Masaki, si era perduta in quel monte e al ritorno al villaggio non era più in sé; farneticava di un enorme serpente ed era incinta, incinta della piccola Takako che nacque con le stesse splendide sembianze della madre. Takako portava però in sé il potere di uccidere o di portate alla morte chi la guardasse negli occhi, o così i familiari e, dal loro racconto, gli abitanti del villaggio di Kodani credevano. Il nonno, rimasto solo, fu felice di affidarla al monaco che aveva chiesto di tenerla con sé, e da allora Takako visse in completo isolamento nella capanna del tempietto dove En'yu si prendeva cura di lei. Questo racconto, ricevuto da una persona reale in un contesto reale, se da un lato rassicurava Masaki del fatto che non fosse impazzito e che tutto ciò che aveva vissuto in montagna non fosse stato un'illusione o un sogno, dall'altro confermava invece la natura irreale di queste vicende. Negli eventi di Otaki e Takako c'erano gli stessi incomprensibili elementi che anche lui aveva vissuto in quelle due settimane fra i boschi e sul monte, al tempio. La donna del sogno è reale, la fanciulla della capanna è reale, il tempio è reale, Otaki e Takako sono reali. E allora perché è tutto così irreale e irrazionale?


Hirano Keiichirō è stato da molti paragonato a Mishima, di cui è egli stesso grande ammiratore. Ho compreso il motivo di questi giudizi leggendolo: la prosa è elegante, elaborata, ricca, sicuramente ricercata, ma mai inaccessibile. Credo che ad accomunarli sia quindi proprio il fatto che la loro scrittura è bella, non nel senso in cui questo termine viene comunemente utilizzato, spogliandolo del suo vero significato, ma nel senso filosofico originario, ovvero come oggetto dell'estetica. L'estetica della parola è curata in ogni dettaglio nelle loro opere, restituendoci delle narrazioni di alto valore e raffinatezza stilistici.


Ichigetsu Monogatari si svolge nell'arco di una luna, di un mese quindi, e la luna è onnipresente in questo racconto. È uno dei pochi elementi che tiene ancorati a un fluire "reale" del tempo, perché nonostante lo stato di confusione di Masaki riguardo alle discrasie temporali, la luna nel racconto continua a mostrarsi nel suo corso naturale da luna crescente via via verso la mezza luna e infine la luna piena. Ma la luna qui è anche il trait d'union tra la corrente romantica europea, a cui non solo il protagonista poeta in fermento, ma lo stesso autore attinge per quest'opera, e la tradizione classica giapponese, la cui influenza nel racconto meriterebbe attenzione. Anche questo è un elemento in comune con Mishima: il grande scrittore aveva un'approfondita conoscenza della letteratura antica giapponese e della cultura e tradizione antiche, di cui rielaborava temi ed estetica, e che spesso citava nelle sue opere. Anche in questo romanzo di Hirano Keiichirō ritroviamo elementi, figure e atmosfere della tradizione antica: la descrizione della donna che appare in sogno a Masaki ha la stessa natura delle descrizioni di donne nascoste dietro tende e cortine nei testi di epoca Heian, così come le varie superstizioni che circolano nella zona in cui è ambientata la storia, rimandano a un'epoca lontana in cui il confine tra mondo terreno e ultraterreno, tra reale, umano e sovrannaturale era quasi inesistente. Ma soprattutto, a riportarci indietro di un millennio è proprio la luna. Nella antica cultura di corte la luna era oggetto di contemplazione estetica e figurava spesso nelle composizioni poetiche e letterarie. Ma nella cultura giapponese, accanto a questo vero e proprio culto, la luna è tradizionalmente legata anche a connotati negativi: si credeva che osservarla, in certe circostanze, potesse portare sventura o avere comunque un effetto dannoso nella vita di chi osava guardarla. In particolare, la luna rossa che apparve in cielo proprio sia nella notte della scomparsa di Otaki che nella notte della sua morte, era considerata come un segno che qualcosa di tremendo stesse per accadere, perché si credeva che la luna, soprattutto la luna rossa, potesse avere delle influenze negative e malvagie sulle persone, gli esseri viventi e la stessa Terra.

In questo romanzo la luna è infatti associata tanto alle tragedie di Otaki, quanto allo smarrimento e al mese di sofferenze fisiche e mentali del giovane protagonista, poiché essa, oltre a illuminare o meno le notti, appare sempre nei suoi sogni insieme alla bellissima donna, che poi si scoprì essere Takako. La stessa ragazza sembra una trasfigurazione delle figure mitologiche e folkloriche di demoni sotto le spoglie di bellissime donne che ingannavano gli uomini. Le superstizioni vedevano Takako come capace di uccidere con gli occhi; razionalmente né i lettori né Masaki credono che questo possa essere possibile. Ma la compenetrazione di realtà e sogno che si prefigura ancora più forte dopo le rivelazioni di Yasuko, getta dubbi anche nella mente di Masaki che con tutte le forze ha cercato fin dal principio di dare un senso razionale a quanto gli accadeva. Quando alla fine Masaki tornerà sul monte per incontrare la ragazza, di cui è sicuramente ossessionato e, per sua convinzione e ammissione, innamorato, cosa accadrà allora? Anche quello del suo "amore" per Takako è un elemento molto interessante nella tessitura di questa narrazione. Alla fine, con la riflessione su sogno e realtà che questo sentimento si porta dietro, si manifesta come una metafora della passione di cui il narratore ci parla nelle prime pagine del libro. La passione era per Masaki un concetto nuovo con cui era entrato in contatto proprio attraverso la letteratura europea, e che lui considerava come "un male cronico":

"per sentire di essere veramente vivo, doveva assaporare l'esperienza di un qualche tipo di trascendenza istantanea, un'elevazione pura, effimera, uno stimolo talmente violento che non si sarebbe pentito di distruggere per esso la propria intera vita in un sol colpo".

Ed ecco che alla luce di queste parole, l'amore di Masaki per Takako e questo suo lacerante e irrefrenabile desiderio per lei, che lo spinge, moribondo, a riattraversare quei boschi pieni di misteri e insidie e salire su quel monte dai poteri quasi magici, sembrano essere più che altro l'ossessione di vivere questa esperienza di elevazione e trascendenza pura, a costo della propria vita, guardando in viso e negli occhi questa sventurata fanciulla col potere di uccidere gli altri. Il mondo dell'interiorità e dell'Io, su cui Masaki a lungo si era interrogato, soprattutto quando rifletteva sul monaco En'yu, scuoteva il suo animo, lo rendeva inquieto, e desiderava trovare risposta al suo interrogativo sull'esistenza di questa dimensione interiore. Quello dell'Io è un concetto tipicamente europeo, sviluppatosi in particolare in epoca romantica con l'Idealismo; era un concetto del tutto estraneo alla cultura giapponese e dell'Asia orientale in genere. Masaki viveva nel caos in cui questo concetto e questa riflessione lo avevano gettato e il caos di eventi e di intrecci di dimensioni, divari temporali, ossessioni, allucinazioni e sogni simboleggia forse quel caos, quello smarrimento mentale del giovane poeta, che quando crede di aver trovato il modo di tirare i fili insieme, è invece sopraffatto dalla propria impotenza.


Ci sarebbe tanto altro da dire e su cui riflettere in merito a quest'opera; io propongo solo questi spunti (avendone trascurati altri più che altro per motivi di spazio e tempo). Per me è stata una lettura molto piacevole da un lato (io tra l'altro sono una selenofila e non potrei mai non leggere un libro sulla luna) e confortante da un altro, perché mi ha dato speranza che la "grande" letteratura non abbia in realtà concluso la sua stagione e possa risollevarsi. Racconto di una luna è un'opera raffinatissima nello stile, nei temi e in una rielaborazione di temi e stilemi che sorregge magistralmente una apparentemente semplice architettura narrativa, che però raggiunge profondità abissali di riflessione sull'io, sulla letteratura, sull'incontro di culture, sulla filosofia, sull'antropologia anche, e infine sulle emozioni che rispondono a tutti questi stimoli interni ed esterni. Non mi sento di consigliare questo libro a chi non sia abituato a leggere "vera letteratura": i riferimenti letterari e filosofici sono disseminati in ogni parola del libro e non conoscerli o non essere in grado di coglierli non consentirebbe di apprezzare l'opera. A chi invece ha dimestichezza con la letteratura, consiglio caldamente di leggere questo romanzo (tra l'altro uno dei primi dell'autore, scritto a 24 anni), che trabocca di una raffinatezza culturale, intellettuale e letteraria come non se ne vedevano da tempo.


Solo due parole sulla traduzione: Laura Testaverde ha davvero fatto un ottimo lavoro e questo non è un dato da dare per scontato. La ringrazio quindi di aver portato anche in Italia quest'opera bellissima; ora attendo 日食 (Nisshoku, "Eclissi"), il suggestivo romanzo d'esordio.






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