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  • Immagine del redattoreMadeleines & Cahiers

Un premio, un successo; anche letterario?

Aggiornamento: 12 gen

Quando alcuni anni fa vinse il Premio Strega, molti miei colleghi e conoscenti mi parlarono benissimo di questo libro, come di un'opera davvero unica e notevole. Al tempo ero molto occupata con il lavoro e poi con una serie di problemi di salute, quindi quel titolo passò nel dimenticatoio.


Paolo Cognetti, Le otto montagne. Einaudi: Torino, 2016. Pagine 200, €18,50 (edizione Supercoralli; 2018 e €13 per l'edizione SuperET, quella in mio possesso)

Mi è tornato in mente lo scorso anno - non per l'uscita del film, diverso tempo prima - e solo a dicembre è finalmente arrivato il suo turno (stroncato sul nascere, perché mi sono ammalata e l'ho ripreso in mano solo a metà gennaio di quest'anno). L'ho letto in pochi giorni e devo ringraziare una notte di veglia, che mi ha consentito di concludere una lettura che faticavo a portare avanti.

Perché sarà anche un libro vincitore del più prestigioso ( ... ) premio letterario italiano, sarà pure un libro molto amato dal pubblico, ma questa unicità e questa grandissima qualità letteraria non le ho davvero riscontrate tra le 200 pagine di questo libro.


A parte alcune sezioni, in particolare tra quelle dedicate alla descrizione del paesaggio, la prosa l'ho trovata fin troppo comune, uno stile non accattivante, una scrittura non così notevole. Non voglio dire che un'opera letteraria debba avere per forza uno stile raffinato e ricercato e una scrittura innovativa e profonda, ma deve distinguersi dalla massa dei testi scritti, deve giocare con la lingua e le sue infinite combinazioni e potenzialità, deve essere anche e soprattutto altro dal nostro parlare e scrivere comune. Per me, questo libro quella soglia non la supera.

Ma non è questo quello che ritengo il limite più grande di questo libro. La fonte di maggiore delusione l'ho trovata a livello tematico e narratologico. I temi che Cognetti vuole sviluppare - il rapporto tra uomo e montagna e più in generale tra uomo e natura; il senso del luogo e la sua influenza sull'uomo; la dicotomia città/"natura"; l'amicizia; le relazioni familiari e personali; la crescita dell'individuo, per citare i principali - sono molto interessanti e rilevanti anche da un punto di vista socio-culturale; per questo avevo aspettative abbastanza alte nei confronti di questo libro. La storia con cui ha deciso di dare voce e forma a questi temi, lo ammetto, non mi ha particolarmente affascinata fin da subito; tuttavia non mi sono fatta né bloccare né tantomeno influenzare da questo, proprio perché i temi erano per me importanti, nonché il motivo per cui ho voluto leggere il libro.

L'impianto narrativo però per me non regge; i fili non vengono tirati alla fine dell'opera e diversi elementi, compresa la conclusione della vicenda di Bruno, continuano anche dopo mesi a lasciarmi perplessa. Non per la fine del personaggio in sé, figuriamoci; ma perché quella fine non apporta alcun significato al discorso tematico che l'autore sembrava voler fare a inizio opera, e che invece si perde in sentieri narrativi che non si capisce bene dove inizino e soprattutto dove vogliano portare. Il fatto che Bruno sparisca - presumibilmente ucciso dalla valanga che si abbatte sulla baita, nonostante i suoi resti non vengano mai rinvenuti nell'area interessata dal fenomeno - è tutto sommato in linea con un personaggio che era e si sentiva estraneo in ogni situazione e ambiente in cui viveva; in realtà anche in quello che veniva descritto come il suo luogo di appartenenza, su in quota, da solo lontano da tutto e tutti. Era sicuramente un'anima sofferente e la sua scomparsa è in realtà un atto generoso nei suoi confronti, sia da parte della vita che da parte dell'autore. Quello che mi lascia perplessa sono proprio le ragioni della presenza di questo personaggio nel discorso del romanzo e quelle di questa sua fine, che non portano al culmine o a conclusione nessuna delle storie raccontate. Quella personale di Pietro, con le sue fughe e i suoi ritorni dall'Himalaya, quella della sua famiglia, quella di Lara e della sua bambina, quella del paese e dei suoi abitanti. Né portano a compimento un discorso che ormai era sfilacciato e proseguiva in direzioni diverse da molte pagine prima. I messaggi sottesi a questo libro sembrano perdersi nelle sue pagine come i resti di Bruno mai ritrovati. Non riappaiono da sotto la coltre di questa scrittura a tratti quasi banale; non si capisce cosa Cognetti volesse dire, dove volesse arrivare.


Per me è stata una lettura deludente. Non voglio dire che sia un libro scarso o mediocre, né intendo scoraggiarne o sconsigliarne la lettura. Se dovessi dargli un voto con le 5 stelle, come va di moda su blog, siti e media, darei forse un 3; non una bocciatura assoluta quindi, è un voto non motivato però, semplicemente "sento di dover" dare questo voto. Al contrario, leggetelo il libro e fatevi la vostra idea. Leggerlo per me è stato però come un green washing della letteratura: voler parlare di un ambiente, una cultura, un sentire che in realtà non si conosce direttamente, non è neppure stato fatto davvero proprio e viene invece stereotipizzato, banalizzato e commercializzato. Questa è la sensazione che mi è rimasta alla fine. Che peccato; speravo che, dopo la scomparsa del grande Mario Rigoni Stern, potessimo aver trovato una nuova e giovane voce nel minuto laghetto della Nature and Conservation Writing italiana. Temo che invece dovremo aspettare; e a giudicare da quella che è la coscienza ambientale e naturalistica media italiana, l'attesa sarà abbastanza lunga.


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